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giovedì 21 maggio 2009

L'esperienza conta

Gli studiosi hanno analizzato i meccanismi cerebrali che influiscono sulle decisioni mediate dall'esperienza.


I ricercatori del Biotechnology and Biological Sciences Research Council (BBSRC) hanno trovato evidenza scientifica di un dato che il senso comune ha già dato per acquisito: la passata esperienza costituisce un valido aiuto quando occorre prendere una decisione sulla base di un'informazione incerta o confusa.

In sostanza, in quest'ultimo studio i ricercatori hanno dimostrato come l'apprendimento indotto dall'esperienza cambi realmente i circuiti cerebrali in modo da permettere di categorizzare velocemente ciò che percepiamo e di prendere una decisione altrettanto rapidamente.

Secondo quanto riportato sulla rivista “Neuron” da Zoe Kourtzi e colleghi dell'Università di Birmingham, l'esperienza passata ristruttura effettivamente il nostro cervello in modo che esso possa rispondere in modo appropriato in qualunque contesto.

Nello scegliere lo svolgimento dell'azione che con più probabilità avrà successo, il cervello deve interpretare ciò che vede, o in generale percepisce, attribuendo un significato a una informazione intrinsecamente incerta. Tale capacità è cruciale, per esempio, quando dobbiamo rispondere con un'azione a stimoli visivi che sono tra loro molto simili. È ciò che succede quando si cerca di riconoscere un volto amico in una folla.

Gli studiosi hanno analizzato i meccanismi messi in atto dal cervello che influiscono sulle decisioni mediate dall'esperienza misurando i segnali cerebrali di un gruppo di volontari che svolgevano un test in cui occorreva imparare a discriminare tra schemi visivi simili assegnandoli a differenti categorie.

I soggetti sottoposti al test dovevano classificare alcuni schemi visivi sulla base di due diverse regole, concepite in modo da produrre categorizzazioni tendenzialmente diverse tra loro.

"Il nostro utilizzo dell'imaging in combinazione con tecniche matematiche ci permette di ottenere preziose informazioni sui segnali cerebrali che indicavano le scelte adottate dai partecipanti", ha spiegato Kourtzi. "Ciò che abbiamo mostrato, è che le precedenti esperienze possono allenare i circuiti cerebrali che ci permettono di riconoscere le categorie percepite invece che semplicemente le somiglianze fisiche tra schemi visivi. Sulla base di ciò che abbiamo trovato, proponiamo un modello in cui l'informazione appresa sulle categorie è effettivamente preservata nei circuiti cerebrali nelle aree occipitali del cervello. Da queste, l'informazione viene trasferita alle aree frontali che la trasformano in decisioni flessibili e azioni appropriate che dipendono dalle richieste del compito.”

Staminali per combattere i tumori

Nei topi, i ricercatori hanno mostrato che le cellule staminali sono in grado di ridurre di circa l'80 per cento la crescita di tumori del seno sottocutanei. Le stesse cellule staminali possono ridurre del 38 per cento le metastasi polmonari.

Un gruppo di ricercatori del Centre for Respiratory Research dello University College di Londra ha dimostrato la capacità delle cellule staminali adulte di midollo osseo, le cellule staminali mesenchimali, o MSC, di produrre proteine che distruggono e cellule tumorali.

Le cellule staminali geneticamente ingegnerizzate riescono infatti a localizzare le cellule cancerose, sia in coltura sia nel modello murino, e a distruggerle, risparmiando quelle normali, grazie alla liberazione della sostanza nota come ligando inducente l'apoptosi correlato al TNF (TNF-related apoptosis-inducing ligand, o TRAIL).

Precedenti studi avevano mostrato come le MSC possano essere utilizzate come vettori per somministrare una terapia antitumorali; d'altra parte alcune ricerche hanno evidenziato come il TRAIL possa uccidere le cellule tumorali ma non quelle normali. Inoltre, è noto che una piccola percentuali delle cellule neoplastiche – dall'1 al 2 per cento – siano anche staminali, e che proprio esse potrebbero esser responsabili dell'insorgenza del tumore, delle sue recidive e della chemioresistenza.

"Le attuali terapie oncologiche sono limitate dalla tossicità e dalla capacità di resistenza del tumore; inoltre non possono distruggere cellule staminali tumorali”, ha spiegato Michael Loebinger, che ha condotto la ricerca e ne ha presentato i risultati alla conferenza internazionale dell'American Thoracic Society, in corso a San Diego.

Nei topi, i ricercatori hanno mostrato che le cellule staminali sono in grado di ridurre di circa l'80 per cento la crescita di tumori del seno sottocutanei. Le stesse cellule staminali possono essere iniettate per via endovenosa come terapia per topi con metastasi polmonari, che vengono eliminate nel 38 per cento dei casi.

Questo è il primo studio a dimostrare una significativa riduzione dei tumori grazie a MSC indotte a esprimere TRAIL in una terapia con un bersaglio specifico”, ha concluso Loebinger. "I tumori del seno sono un buon modello delle metastasi, ma abbiamo intenzione di testare le cellule così ingegnerizzate con altri modelli, incluso il tumore del polmone, ed entro due o tre anni speriamo di cominciare i trial sugli esseri umani.”

In una ricerca è stato sviluppato un processo che sfrutta colture microbiche aperte per convertire scarti organici in poliidrossialcanoati a un ritmo

In una ricerca è stato sviluppato un processo che sfrutta colture microbiche aperte per convertire scarti organici in poliidrossialcanoati a un ritmo tre volte più rapido rispetto ai sistemi attuali.

I microrganismi potrebbero rivelarsi fondamentali anche per sostituire il petrolio come materia prima per la produzione di plastiche: diverse proposte a riguardo sono state illustrate al convegno dell'American Society for Microbiology.

"I materiali organici di scarto dell'agricoltura, dell'industria e delle case private costituiscono una risorsa abbondante che attualmente viene buttata o trasformata in biogas: dal punto di vista di una produzione sostenibile, sarebbe auspicabile la loro trasformazione in sostanze chimiche utili”, ha spiegato Mark van Loosdrecht della Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, che negli ultimi anni ha studiato alcuni batteri per trasformare questi scarti in bioplastiche note come poliidrossialcanoati (PHA).

I PHA sono poliesteri lineari prodotti dalla fermentazione batterica di zuccheri o lipidi e comprendono una notevole varietà di materiali, dal momento che possono essere ottenuti a partire da 150 diversi monomeri. Si tratta di plastiche biodegradabili e tutt'ora costose da produrre rispetto alle plastiche convenzionali: questa circostanza ha limitato il loro uso in un'ampia gamma di applicazioni.

Utilizzando una tecnologia derivata dal trattamento delle acque reflue, van Loosdrecht e i colleghi del suo laboratorio hanno sviluppato un processo che sfrutta colture microbiche aperte per convertire scarti organici in PHA a un ritmo tre volte più rapido rispetto ai sistemi attuali.

In un'altra ricerca, Kevin O'Connor dello University College di Dublino, in Irlanda, ha sviluppato un nuovo processo utilizzando anch'egli batteri per produrre PHA a partire da materiali di scarto, e in particolare da plastiche non biodegradabili, utilizzando la pirolisi. in tale processo, le plastiche vengono riscaldate in assenza di aria, causando la rottura dei legami molecolari. Il prodotto di questa prima fase di lavorazione diviene il nutrimento dei batteri del suolo che lo utilizzano per produrre PHA.

Il processo è stato sviluppato inzialmente utilizzando polistirene, una delle plastiche attualmente più diffuse, ma O'Connor ritiene che possa funzionare anche con altre sostanze, tra cui il tereftalato di polietilene (PET), utilizzato per produrre le bottiglie per l'acqua.

Richard Gross della Polytechnic University di Brooklyn, a New York, utilizza invece alcuni batteri per produrre, a partire da oli vegetali, una sostanza che a sua volta può essere convertia in una plastica molto simile al polietilene. Tuttavia, a differenza di quest'ultimo, quando viene scartato può essere convertito con metodi enzimatici in biodiesel.

martedì 12 maggio 2009

La notte a colori del geco

Scoperto il segreto che permette ad alcuni gechi una visione notturna a colori, che permetterà la creazione di telecamere più sensibili e di lenti a contatto multifocali.

Famosi per le loro capacità di arrampicatori sulle superfici più lisce, i gechi hanno di recente suscitato l'interesse dei ricercatori anche per un'altra caratteristica peculiare: i gechi notturni (Tarentola chazaliae) sono fra le pochissime creature viventi in grado di vedere i colori di notte. La chiave di questa eccezionale capacità di visione notturna è stata ora identificata da un gruppo di biologi dell'Università di Lund, in Svezia, che ne dà notizia in un articolo pubblicato sul "Journal of Vision".

"Ci siamo interessati ai gechi perché, a differenza della maggior parte degli altri vertebrati, nella loro retina sono presento soltanto coni", ha osservato Lina Roth, che ha diretto la ricerca. "Grazie alle nuove conoscenze sugli occhi del geco possiamo diventare capaci di sviluppare telecamere più efficienti e forse di sviluppare lenti a contatto multifocali", ha osservato Lina Roth.

Il sistema ottico multifocale dei gechi è formato da grandi coni che in base ai risultati dei ricercatori hanno una soglia di sensibilità ai colori 350 più bassa di quella che permette l'attivazione dei coni della retina umana.

Il segreto di questa eccezionale sensibilità sta nel sistema multifocale di cui sono dotati gli occhi dei gechi notturni, che permette una messa a fuoco simultanea sulla retina della luce di differenti lunghezze d'onda. Un altro vantaggio offerto da questo sistema ottico è rappresentato dalla possibilità di mettere a fuoco oggetti posti a distanze differenti e di generare un'immagine più o meno "incisa" a seconda della distanza.

sabato 9 maggio 2009

Un 'naso' elettronico per fiutare il cancro


In grado di rilevare differenze negli odori provenienti dalle cellule sane e da quelle cancerose, apre la via a più sofisticate sperimentazioni e analisi biochimiche

Un "naso" elettronico sviluppato dalla NASA per monitorare la qualità dell'aria sullo space shuttle Endeavour può essere utilizzato per rilevare differenze "odorose" fra cellule cerebrali normali e cancerose: la singolare scoperta è stata fatta da ricercatori del City of Hope Cancer Center, della Brain Mapping Foundation a West Hollywood e del Jet Propulsion Laboratory (JPL).

I risultati dello studio saranno pubblicatati a luglio su un numero speciale della rivista "Neuroimage" e presentati al World Congress for Brain Mapping & Image Guided Therapy che si terrà in agosto presso la Harvard Medical School.

L'apparecchiatura messa a punto dalla NASA per lo shuttle è in grado di rilevare contaminanti presenti in una concentrazione compresa tra 1 e 10.000 parti per milione: la sua sensibilità è tale da permettere di evidenziare quali molecole partecipano agli scambi cellulari, di studiare la migrazione delle cellule staminali e da essere impiegata come possibile strumento di imaging intraoperatorio.

Nel corso dei loro esperimenti, i ricercatori hanno potuto dimostrare che 'il naso' elettronico è effettivamente in grado di fiutare differenze negli odori provenienti dalle cellule sane e da quelle normali, aprendo la via a più sofisticate sperimentazioni e analisi biochimiche.

Babak Kateb, direttore scientifico della Brain Mapping Foundation e coordinatore della ricerca, ha osservato: "Questo studio pilota getta le basi per una futura ricerca che ci può aiutare a comprendere meglio l'interscambio di comunicazioni fra cellule, contribuendo a progettare nuovi e migliori approcci alla rilevazione e alla differenziazione dei tumori cerebrali e a comprendere la fisiopatologia dei gliomi intracranici".

Un esame delle urine per prevenire i trombi


Una nuova ricerca ha evidenziato la correlazione tra elevati livelli della proteina albumina nel sangue e rischio di malattia tromboembolica venosa profonda.


I risultati preliminari di una ricerca pubblicata sull'ultimo numero del “Journal of American Medical Association (JAMA)”, mostrano come elevati livelli della proteina albumina nelle urine siano associati a un incremento del rischio di tromboembolismo venoso profondo (VTE) a carico delle gambe e dei polmoni.

L'incidenza complessiva della VTE – ovvero la percentuale di nuovi casi all'anno sul totale della popolazione generale – è di circa 0,15 per cento, con una variabilità tra lo 0,005 per cento nei soggetti di età inferiore a 15 anni fino allo 0,5 per cento negli ottantenni. I fattori di rischio della patologia finora individuati sono il rallentamento del ritorno venoso e le variazioni nella composizione sanguigna.


Tuttavia, tali fattori non sono presenti in circa il 50 per cento dei casi diagnosticati.

La microalbuminuria, ovvero la presenza di albumina nelle urine, è associata alla variazione di concentrazione di diverse proteine coinvolte nel processo di coagulazione. Gli effetti dei disturbi della coagulazione si riflettono poi nella formazione di VTE più che nel tromboembolismo arterioso.

“In teoria, il legame tra microalbuminuria e VTE è probabile ma manca ancora l'evidenza sperimentale di una correlazione: si tratta di un ambito di ricerche che finora non sono state svolte”, sottolineano gli autori.

Bakhtawar K. Mahmoodi e colleghi dello University Medical Centre Groningen, nei Paesi Bassi, hanno condotto uno studio raccogliendo campioni di urine di più di 40.000 soggetti di età compresa tra 28 e 75 anni. Un gruppo selezionato di circa 8500 soggetti, tra cui tutti quelli con i livelli più alti di albumina sono poi stati seguiti per più di otto anni. Nel periodo di osservazione, 129 di essi – corrispondenti al 3 per cento dei soggetti con un elevata microalbuminuria e all'1 per cento di coloro che mostravano livelli normali - hanno poi sviluppato almeno un episodio di VTE.

"I risultati portano a ipotizzare che la microalbuninuria rappresenti un importante fattore di rischio per la VTE; tuttavia, diversamente dagli altri fattori di rischio, tale condizione potrebbe essere trattata con farmaci diversi dagli anticoagulanti, ma per valutarne gli effetti occorrono ulteriori studi.”

Un gene estraneo che 'bypassa' i difetti mitcondriali

Protegge la "centrale energetica" della cellula dall'eccesso di radicali liberi che si formano quando le loro vie metaboliche normali sono boccate. La scoperta apre nuove prospettive terapeutiche.


Dotandoli di un gene presente in un'altra classe di animali, è possibile eliminare i sintomi di parkinsonismo nei moscerini della frutta appositamente alterati per manifestare la malattia. Il gene agisce a livello dei mitocondri proteggendoli da un eccesso di radicali liberi che si formano quando alcune loro vie metaboliche sono inceppate. La scoperta è stata fatta da ricercatori dell'Università di Tampere diretti da Howard Jacobs, che ne danno notizia in un articolo pubblicato sulla rivista "Cell Metabolism".

Il nuovo gene chiave, AOX (alternative oxidase) agisce come una via alternativa rispetto al blocco della fosforilazione ossidativa (OXPHOS) della catena respiratoria nei mitocondri.

"Questo è il primo organismo completo su cui è stata testata l'idea che si possa prendere un gene che codifica un solo polipeptide e bypassare OXPHOS quando è bloccato", ha detto Jacobs, sottolineando che la via metabolica OXPHOS comprende decine di componenti e centinaia di proteine.

I difetti nell'OXPHOS mitocondriale sono associati a diversi disordini, spesso incurabili. E' però possibile che questa strategia testata sulla drosofila(il moscerino studiato) possa essere di beneficio anche nei mammiferi, esseri umani inclusi, che al pari degli artropodi nel corso dell'evoluzione hanno perso il gene AOX.

La maggior parte delle piante, diversi animali (come anellidi, molluschi e urocordati) e i funghi possiedono invece una catena respiratoria alternativa basata su AOX che in particolari condizioni fisiologiche si sostituisce al sistema OXPHOS.

In uno studio precedente, Jacobs e colleghi avevano verificato in cellule umane l'ipotesi che AOX potesse aggirare le conseguenze dell'inibizione di OXPHOS inserendovi il gene prelevato dall'ascidia Ciona intestinalis. La proteina codificata dal gene AOX trovava effettivamente la propria strada verso i mitocondri e rendeva la cellula resistente all'acidosi metabolica allo stress ossidativo e alla morte cellulare altrimenti innescata dal trattamento con inibitori di OXOPHOS come antimicina e cianuro.

Ora i ricercatori hanno mostrato che lo stesso vale nell'animale in vivo e che l'attività di AOX di Ciona in tutto l'organismo apparentemente non provoca disturbi ai moscerini, che anzi risultano parzialmente resistenti al cianuro e all'antimicina. In un ceppo mutante di moscerini portatori di una variante del gene dj-1b - che li rende un modello della malattia di Parkinson legata al gene DJ1 - AOX ha anche eliminato i difetti di movimento e l'eccesso di produzione di specie reattive dell'ossigeno da parte dei mitocondri.