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domenica 14 agosto 2011

Una nuova alternativa alla sperimentazione animale in cosmetica

La legislazione europea limita la sperimentazione sugli animali in campo cosmetico e le aziende sono alla ricerca di sistemi alternativi per garantire la sicurezza dei prodotti.

Una ricerca in corso di stampa sulla rivista on line BMC Genomicsdimostra che la risposta di cellule umane coltivate in laboratorio può essere utilizzata per classificare le sostanze chimiche, ai fini dello sviluppo di una dermatite da contatto, come sensibilizzanti o non-sensibilizzanti, e può anche prevedere l'intensità dell'eventuale risposta allergica, fornendo una alternativa alla sperimentazione animale in questo ambito.

Nel 2009, un emendamento alla Direttiva sui test cosmetici ha vietato di testare prodotti e ingredienti cosmetici sugli animali rendendo oltremodo difficile garantire l'ipoallergenicità dei nuovi prodotti.

I ricercatori dell'Università di Lund, in Svezia, hanno utilizzato il profilo genomico per misurare la risposta di una linea cellulare di cellule di leucemia mieloide umana a sostanze chimiche conosciute. Sulla base dei risultati ottenuti hanno definito una 'firma biomarker' relativa a 200 geni, che sono in grado di discriminare con precisione tra agenti chimici sensibilizzanti e non-sensibilizzanti, riuscendo anche a utilizzare questo sistema per prevedere la potenza allergenica, ossia l'intensità della risposta del sistema immunitario.

"Il regolamento REACH (registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche) - ha detto Carl Borrebaeck, che ha diretto lo studio - impone che tutte le sostanze chimiche nuove ed esistenti all'interno dell'Unione europea siano testate sotto il profilo della sicurezza. Il numero di sostanze chimiche in elenco supera già le 30.000 e continua a crescere. Pur essendo ancora in una fase iniziale della produzione, la nostra alternativa di laboratorio alla sperimentazione animale è più veloce rispetto alle alternative presenti e, in quanto le cellule sono di origine umana, anche più rilevante."

martedì 25 maggio 2010

Una cellula batterica controllata da un genoma sintetico

Secondo i ricercatori

la tecnica utilizzata può diventare uno strumento di progettazione biologica estremamente potente e dalle molteplici applicazioni.
I ricercatori del J. Craig Venter Institute avevano già sintetizzato chimicamente un genoma batterico e avevano pure trapiantato il genoma di un batterio in un altro. Ora hanno combinato le due tecniche per creare quella che hanno chiamato una "cellula sintetica", anche se in realtà è sintetico solamente il suo genoma.

Un gruppo di scienziati del J. Craig Venter Institute ha sviluppato la prima cellula controllata da un genoma sintetico, e ne dà l'annuncio in un articolo pubblicato sulla rivista Science.

"Questa è la prima cellula sintetica mai fatta, e la chiamiamo sintetica perché è totalmente derivata da un cromosoma sintetico, prodotto con quattro flaconi di prodotti chimici e un sintetizzatore chimico a partire dalle informazioni presenti in un computer", ha dichiarato Craig Venter.

"Questo può diventare uno strumento di progettazione biologica molto potente", ha aggiunto, affermando che hanno in mente molte applicazioni, a partire dalla progettazione di un'alga capace di catturare il biossido di carbonio e produrre idrocarburi che possano essere inviati in una raffineria, a batteri utilizzabili per eliminare l''inquinamento delle acque.

Nello studio pubblicato su
Science i ricercatori hanno sintetizzato il genoma di M. mycoides aggiungendovi sequenze di DNA atte a marcarlo in modo da distinguerlo da quello naturale.

Dato che le apparecchiature attuali sono in grado di assemblare solo sequenze relativamente corte di basi di DNA, i ricercatori hanno poi inserito queste sequenze corte in cellule di lievito i cui enzimi di riparazione del DNA hanno unito una all'altra tali sequenze. Successivamente hanno trasferito le sequenze di media lunghezza in
E. coli e quindi nuovamente nel lievito. Alla fine di tre cicli di assemblaggio i ricercatori sono riusciti a ottenere un genoma lungo oltre un milione di basi.

I ricercatori hanno poi trapiantato il genoma sintetico di
M. mycoides in un altro tipo di batterio, Mycoplasma capricolum. Il nuovo genoma, riferiscono i ricercatori, ha quindi "riavviato" la cellula ricevente, e sebbene quattordici geni fossero andati persi o danneggiati nel corso dei trapianti batterici, le cellule finali apparivano simili ai batteri M. mycoides e producevano solamente proteine di questo tipo di batteri.

"Riteniamo che questo sia un passo importante sia scientificamente sia filosoficamente. Ha certamente cambiato la mia prospettiva sulla definizione di vita e sul modo in cui la vita funziona", ha detto Ve
nter.

sabato 24 aprile 2010

Scoperto un sotto-codice genetico

Concorre a determinare i livelli di espressione delle diverse proteine in risposta ai differenti eventi a cui può andare incontro la cellula.

Grazie a un approccio multidisciplinare, Yves Barral, del Dipartimento di biologia dell'ETH di Zurigo, con la collaborazione degli informatici Gina Cannarozzi e Gaston Gonnet, del dipartimento di informatica dello stesso istituto hanno scoperto un sottocodice genetico, a cui è deputato un compito nell'espressione genica.

Com'è noto, negli organismi viventi le proteine necessarie alla vita vengono codificate a partire dall'informazione codificata nel DNA, una lunga sequenza di nucleotidi identica in ogni cellula. Nel processo di traduzione, a ogni tripletta di nucleotidi – o codone – corrisponde un amminoacido, il mattone elementare per la sintesi proteinca.

Secondo quanto riferito in un articolo pubblicato sulla rivista Cell ora i ricercatori dell'ETH hanno identificato un sottocodice che determina con quale tasso deve essere prodotta una certa proteina. Queste nuove informazioni hanno molte implicazioni interessanti: in primo luogo, consentono una nuova comprensione del complesso macchinario biochimico di traduzione genica, oltre a ciò rendono possibile leggere l'informazione sull'espressione genica direttamente dalle sequenze genomiche, mentre finora tale informazione poteva essere ottenuta solo con approcci sperimentali complessi e costosi come i microarray.

"Una cellula deve rispondere molto velocemente a eventi improvvisi diversi, da un danno al DNA a un potente avvelenamento da arsenico. Il nuovo sottocodice permette di sapere quali geni sono attivati subito dopo questi eventi e quali in modo più indiretto. Un vantaggio di questo studio è che è possibile ottenere questa informazione solo dall'analisi della sequenza genica", ha commentato Gina Cannarozzi.

Oltre a ciò, il sotto-codice fornisce mostra nuovi particolari dei processi molecolari che avvengono all'interno dei ribosomi, gli organuli in cui avviene la sintesi delle proteine. Tutti i dati finora a disposione indicano che i ribosomi riciclano il tRNA al fine di ottimizzare la velocità di sintesi delle proteine.

La scoperta di questo nuovo modo di regolare la traduzione potrebbe aprire la strada alla produzione di nuovi agenti terapeutici e di reagenti per la ricerca.

giovedì 28 gennaio 2010

Come trasformare cellule della pelle in neuroni


Finora si riteneva indispensabile riportare prima le cellule già differenziate a uno stato di pluripotenza indotta
Trasformare cellule della pelle di topo in neuroni funzionanti: c'è riuscito un gruppo di ricercatori dello Stanford University Medical Center con l'l'inoculazione di tre geni. Questo cambiamento è avvenuto senza dover prima riportare le cellule allo stadio di pluripotenza, un passo a lungo ritenuto indispensabile per poter riconvertire delle cellule già differenziate.

La scoperta, descritta in un articolo pubblicato su "Nature" potrebbe rivoluzionare le future terapie basate sulle cellule staminali, e richiedere una riorganizzazione delle conoscenze sulle modalità con cui le cellule si differenziano e conservano lo stato raggiunto.

"Abbiamo direttamente e attivamente indotto un tipo di cellule a diventare una cellula di tipo completamente diverso", ha detto Marius Wernig, che ha diretto la ricerca. "Si tratta di neuroni perfettamente funzionanti, in grado di fare tutte le principali funzioni svolte da quelli cerebrali".

Wernig nel 2007 aveva partecipato agli studi grazie a cui il gruppo di ricerca di Rudolf Jaenisch del Whitehead Institute, in Massachusetts, era riuscito a indurre uno stato di pluripotenza in cellule di pelle umana infettate con fattori di trascrizione ricavate da staminali in vista di una loro successiva differenziazione in un tipo cellulare differente. Successivamente si è posto la domanda se il passaggio attraverso il ritorno alla pluripotenza fosse strettamente necessario.

Per testare l'ipotesi Wernng e colleghi hanno iniziato a studiare 19 geni coinvolti o nella riprogrammazione epigenetica o nello sviluppo dei neuroni, infettando attraverso un lentivirus cellule di topo con quei geni e osservando la risposta cellulare. In questo modo sono arrivati a isolare un gruppo di soli tre geni

La ricerca suggerisce quindi una via alternativa alla riconversione alla pluripotenza per ottenere cellule differenziate di altro tipo. Secondo Wernig trovando la giusta combinazione di geni che specificano il "destino" cellulare e inserendoli nela cellula differenziata, si innesca un effetto domino nella cellula ricevente che permette di aggirare le modificazioni del DNA che limitano e specificano la funzione cellulare, e di dotare il paesaggio genomico di un nuovo imprinting che ne cambia il destino.

I ricercatori riferiscono inoltre di aver avuto un tasso di successo nella riconversione del 20 per cento, dunque molto superiore a quello che si ottiene attualmente con le cellule prima indotte in uno stato di pluripotenza, che si aggira sull'1-2 per cento.

Ora i ricercatori cercheranno di ottenere risultati analoghi in cellule umane.

venerdì 8 gennaio 2010

Neuroni in vitro che conservano la memoria

Inserendo nelle sezioni di ippocampo alcuni elettrodi di stimolazione, i ricercatori hanno verificato che l'attività spontanea di alcune particolari strutture “ricordava” quale elettrodo era stato attivato.

Per la prima volta, un gruppo di neuroscienziati della Facoltà di medicina della Case Western Reserve University è riuscito a ricreare schemi di attività di circuiti cerebrali mantenuti in vitro.

Nel campo delle neuroscienze, la memoria umana viene classificata in tre categorie: dichiarativa, che consente di memorizzare fatti o specifici eventi; procedurale, che consente di ricordarsi, per esempio, come si suona il piano o si va in bicicletta; e a breve termine, che permette di ricordare, per esempio, un numero telefonico finché non lo si compone.

In questo particolare studio, i cui risultati sono riportati nell'articolo "Representing information in cell assemblies: Persistent activity mediated by semilunar granule cells", che comparirà sulla rivista "Nature Neuroscience" ed è attualmente disponibile online, gli autori Ben W. Strowbridge e Phillip Larimer erano interessati a identificare gli specifici circuiti responsabili della memoria di lavoro.

Utilizzando frammenti isolati di tessuto cerebrale di roditori, Larimer ha scoperto un modo per ricreare un tipo di memoria di lavoro in vitro. Per lo studio, la scelta è caduta su particolari strutture dell'ippocampo rappresentate dalle fibre muscoidi e dalle connesse cellule granulari, che sono spesso danneggiate nelle persone affette da epilessia e che hanno la particolarità di conservare la maggior parte della loro attività anche quando mantenute in vita in sottili sezioni di cervello.

"La constatazione che molti soggetti epilettici hanno deficit di memoria ci ha portato a chiederci se esista una connessione fondamentale tra queste strutture e i circuiti di memoria”, ha spiegato Larimer.

Dopo aver constatato un'attività elettrica spontanea in queste strutture mantenute in vitro, i ricercatori hanno inserito nelle sezioni di ippocampo alcuni elettrodi di stimolazione, verificando come la loro attività spontanea “ricordasse” quale elettrodo era stato attivato. Questo tipo di memoria in vitro aveva una durata media di 10 secondi, tanto quanto altri tipi di memoria di lavoro studiati in soggetti umani.

Un proteina coinvolta in distrofia e cancro

Sfrutta un insolito tipo di legame con la matrice extracellulare, comune nei lieviti e nei funghi, ma finora mai osservato negli organismi superiori.


Un'alterazione chimica in una importante proteina muscolare partecipa alla genesi di alcune distrofie muscolari congenite. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori dell'Università Dell'Iowa che ne riferisce in un articolo pubblicato su "Science" a prima firma Takako Yoshida-Moriguchi. La scoperta ha peraltro implicazioni potenzialmente rilevanti anche per l'identificazione delle cellule tumorali metastatizzanti.

Normalmente, subito dopo la loro produzione, la maggior parte delle proteine va incontro ad alcune modificazioni costituite dall'addizione alla struttura originaria di catene di zuccheri, di grassi, o di altri gruppi chimici. Queste modificazioni possono cambiare significativamente il modo in cui la proteina opera e la loro localizzazione nel corpo. Un'interazione con queste modificazioni può alterarne la funzione e causare malattie.

Questo studio si è focalizzato sul distroglicano, una proteina della membrana cellulare che appare mal funzionante in molte forme di distrofia muscolare. La forma normale del distroglicano viene modificata da una singola catena di zuccheri che ne consente l'ancoraggio delle membrane delle cellule muscolari alla lamina basale, uno strato di proteine extracellulari.

Studi recenti hanno mostrato che la mancata capacità del distroglicano di ancorarsi alla lamina basale è alla base di diverse distrofie ed è coinvolta nella progressione dei tumori maligni della pelle. In questi casi la catena di zuccheri è tronca o mal assemblata, così da impedire la sua adesione alla laminina della lamina basale.

"Il distroglicano è una proteina complessa e insolita, ricoperta da diversi tipi di zuccheri, ma solo una particolare catena di zuccheri le permette di attaccarsi alla laminina. Noi abbiamo cercato di individuarne forma e struttura", ha detto Kevin Campbell, che ha diretto la ricerca.

Grazie a un complesso di metodiche biochimiche i ricercatori sono riusciti così a scoprire che un legame critico per la funzione di questo zucchero è rappresentato da un tipo di legame che coinvolge un gruppo fosfato e che, ampiamente diffuso nei lieviti e nei funghi, non era finora stato documentato negli organismi superiori e nei mammiferi in particolare.

"Questo legame fosfato è davvero insolito e ciò può spiegare perché la reale struttura del legame fra distroglicano e laminina sia rimasto misterioso per molti anni nonostante gli sforzi di comprenderlo", ha detto Campbell. "La scoperta contribuisce a chiarire che cosa avviene nelle distrofie muscolari congenite dove la catena zuccherina del distroglicano è troncata e termina con il fosfato, che non si lega alla laminina. "

Diversi enzimi partecipano alla produzione della catena di zuccheri al di là del gruppo fosfato e proprio mutazioni in tali enzimi sono la causa di queste distrofie.

"Se riuscissimo a scoprire l'intera struttura della catena al di là del legame fosfato potremmo prendere come bersaglio gli enzimi coinvolti nella sua costruzione e sviluppare terapia per queste distrofie", ha detto Campbell.

Anche in alcune cellule cancerose uno di questi enzimi, noto come LARGE, appare soppresso. Campbell ipotizza che la perdita di funzionalità di LARGE porti a un distroglicano incapace di interagire con la lamina basale, rendendo le cellule tumorali più mobili e consentendo loro di sfuggire nel flusso sanguigno. La scoperta potrebbe quindi portare a nuove metodiche per tracciare le cellule metastatizzanti.

martedì 22 dicembre 2009

Postumi della sbornia: non conta solo l'alcol

Dai test è risultato che la sensazione di malessere è peggiore con il bourbon rispetto alla vodka, mentre le capacità neurocognitive non mostrano differenze.

Molte bevande alcoliche contengono prodotti di scarto dei materiali utilizzati nel processo di fermentazione denominati "congeneri”, molecole organiche complesse con effetti tossici tra cui acetone, acetaldeide, fuselöl, tannini e furfurali. Il Bourbon ha un contenuto di congeneri 37 volte superiore rispetto alla vodka. Un nuovo studio ha ora mostrato che nel caso del buorbon, i postumi della sbornia possono essere molto più pesanti, mentre le capacità neurocognitive, valutate in una serie di test, sembrano essere allo stesso livello.

"Sebbene i congeneri possano essere tossici se assunti in grande quantità, sono presenti in quantità molto limitate nelle bevande alcoliche”, ha spiegato Damaris J. Rohsenow, professore di Salute di comunità del Center for Alcohol and Addiction Studies della Brown University, che firma in proposito in articolo sulla rivista Alcoholism: Clinical & Experimental Research. "Ve ne sono di più nei distillati di colore scuro che in quelli di colore più tenue. Sebbene l'alcol da solo sia sufficiente a far star male molte persone, queste sostanze tossiche naturali possono aggiungere i loro effetti negativi per la reazione dell'organismo che possono scatenare.”

Rohsenow sottolinea inoltre come siano disponibili solo pochi studi che abbiano avuto come specifico obiettivo il confronto degli effetti della sbornia delle bevande ad alto contenuto di congeneri rispetto a quelle a basso contenuto e alcuni di essi non hanno atteso che la misura dei livelli alcolici mediante respiro (breath alcohol level, BAL) fosse vicina allo zero prima di effettuare i test in modo da escludere il contributo diretto dell'alcol.

Per colmare questa lacuna, i ricercatori hanno reclutato 95 forti bevitori in buone condizioni di salute facendo loro bere bourbon e vodka fino a raggiungere un valore medio di BAL, e un placebo nella secondo serata, o viceversa. Nel corso della nottata, i soggetti venivano monitorati mediante la tecnica di polisonnografia, mentre il giorno dopo sono state effettuate alcune misurazioni neurocognitive.

"Per prima cosa, sebbene l'alcol contenuto nelle bevande prolunghi il periodo di 'sbornia' mattutina in confronto col placebo, si registrano delle differenze tra bourbon e vodka, poiché il primo produce effetti ancora peggiori”, ha commentato Rohsenow. "In secondo luogo, l'alcol porta a dover prestare attenzione per più tempo quando occorre effettuare scelte accurate, ma non si registrano differenze tra bourbon e vodka nei risultati".