150anni di origine delle specie
A un secolo e mezzo dalla sua enunciazione. "l'idea pericolosa" di Darwin si dimostra più vitale che mai
"Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell'evoluzione". La famosa affermazione del grande biologo Theodosius Dobzhansky è forse quella che meglio esprime l'importanza dell'opera di Darwin, di cui il 12 febbraio ricorre il duecentesimo anniversario della nascita, in coincidenza con il centocinquantesimo della pubblicazione di L'origine delle specie, in cui espose la teoria dell'evoluzione per selezione naturale destinata a cambiare radicalmente le nostre concezioni sulla posizione dell'uomo nel mondo.
Un'idea "pericolosa", come recita provocatoriamente il titolo di un libro del 1995 del filosofo Daniel Dennett, L'idea pericolosa di Darwin, in cui scrive: "Se dovessi assegnare un premio per la migliore singola idea che qualcuno abbia mai avuto, lo darei a Darwin". La misura dell'importanza e della "pericolosità" delle idee darwiniane è data dal fatto che ancora oggi ci troviamo periodicamente di fronte a rigurgiti di vecchie concezioni creazioniste che vorrebbero far passare quella dell'evoluzione come una teoria controversa, a cui sarebbe giusto contrapporre, anche in sede di insegnamento, le concezioni che la negano. (Una dettagliata discussione delle "argomentazioni" dei creazionisti contemporanei la si può trovare nell'articolo Il volto nuovo del creazionismo di G. Branch e E.C Scott sul numero di febbraio di "Le Scienze").
E questo nonostante la ricca messe di dati che da 150 anni continua ad accumularsi a suo favore. La proposta originaria di Darwin si articolava attorno a due punti essenziali: tutte le specie viventi derivano da uno stesso gruppo di organismi primitivi e il processi di differenziazione è avvenuto a partire dalla piccole differenze individuali per selezione naturale, un processo che permetteva alle differenze che possono dare a un individuo un piccolo vantaggio per la sopravvivenza maggiori possibilità di trasmettere alla sua discendenza i caratteri che aiutano a sopravvivere. Idee dunque estremamente semplici da enunciare in prima battuta, un pregio al quale forse si deve il fatto che tanti - che non si sarebbero mai sognati di argomentare contro le teorie di Einstein - hanno pensato di poterla mettere in questione senza approfondirne gli aspetti tecnici che pure contiene.
Vero è che all'epoca Darwin non sapeva e non poteva indicare la fonte di queste variazioni individuali, ma alla luce dei progressi della genetica è stato possibile individuare meccanismi molecolari attraverso cui opera la selezione arricchendo, oltre che confermando, le idee del grande biologo inglese, come è ben illustrato da Edoardo Boncinelli nell'articolo La genetica dell'evoluzione (sempre su "Le Scienze" di febbraio).
Si tratta dunque di una teoria dalle basi più che solide, che non ha scientificamente senso mettere in discussione, ma che nonostante la sua "classicità" non può essere collocata semplicemente nello scaffale dei manuali di base, insieme a un tomo di meccanica razionale, perché è ben lungi dall'avere smesso di produrre autentiche novità.
Se ha ormai spiegato come il singhiozzo, le ernie e altri disturbi più o meno banali che possono affliggerci siano il lascito delle strutture anatomiche di nostri lontanissimi antenati risalenti all'epoca in cui erano tutt'uno con quello di pesci e anfibi (Questo vecchio, vecchio corpo di Neil H. Shubin), la teoria ci deve ancora aiutare a raffinare ulteriormente la conoscenza del nostro albero filogenetico, che pure ha già permesso di sondare in grande dettaglio (Kate Wong nell'articolo Il pedigree degli esseri umani).
Ma non solo. Uno dei grandi dibattiti all'interno della teoria dell'evoluzione contemporanea riguarda il futuro. Spesso si sente dire che per l'uomo contemporaneo - che vive oramai in un ambiente apparentemente protetto da quelle che sono stati i principali fattori di pressione evolutiva - l'evoluzione si sarebbe ormai fermata.
E' proprio così? Come spiega Peter Ward in Che ne sarà di Homo sapiens?, basandosi su un immenso data base in cui sono registrate un numero enorme di variazioni genetiche rilevate nell'uomo, Pardis C. Sabeti della Harvard University hanno cercato di rintracciarvi i possibili segni lasciati dalla selezione naturale sul nostro DNA, riuscendo a identificare oltre 300 regioni del genoma che portavano traccia di cambiamenti recenti atti a migliorare le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. Addirittura, secondo uno studio condotto presso l'Università dello Utah e l'Università del Wisconsin, negli ultimi 10.000 anni l'uomo si è evoluto a una velocità 100 volte maggiore che in ogni altro periodo precedente da quando i primi ominidi si sono separati dal ramo che ha condotto agli odierni scimpanzé.
Ma a differenza dell'uomo primitivo, si potrebbe dire, oggi noi viviamo in un ambiente in cui la cultura ha un peso altrettanto importante o perfino superiore a quello della natura fisica. Ma la cultura, la tecnologia e la mente che le produce sono davvero svincolate dai meccanismi dell'evoluzione?
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